Ci sono strade che portano lontano, strade che salvano la vita, conducendoci in luoghi che aderiscono perfettamente alla nostra anima.
Si
dice che tutte le strade portino a Roma, ma io penso che ogni strada porti in
un posto diverso, diverso per ognuno di noi.
A
diciannove anni non mi ero spinta oltre la staccionata di casa mia, in senso
metaforico s’intende. Infatti avevo visto Parigi, Roma, Londra, ero stata in
vacanza in Africa e in Asia, ma mai avevo percorso davvero la mia strada, avevo
fatto in modo che lo facessero gli altri al posto mio e non avevo mai opposto
resistenza.
Sono
passati tanti anni e di quella strada cerco ancora di chiudere i fantasmi in un
armadio, ma la maggior parte delle notti questi spiriti entrano nei miei sogni
e s’impossessano della mia mente e non mi rimane altro che rivivere i miei
ricordi.
Ero
una ragazzina viziata, che non aveva scelto niente, non avevo ambizioni o grandi
sogni, ma tenevo appuntata sulla bacheca della mia stanza la determinazione di
entrare a Stanford.
Ci
credevo? Lo facevano gli altri al mio posto.
Ero
stata la figlia perfetta, la fidanzata dai colpi di sole impeccabili e la
studentessa migliore del mio anno, ma mancava qualcosa sulla mia strada e non
era qualcosa di materiale o concreto, era più qualcosa di effimero, di fugace e
interiore, allora non capivo, ma quello che cercavo di più, era la direzione,
il senso in cui avrei dovuto percorrere quella mia via.
Socchiudo
gli occhi e ho ancora diciannove anni, una speranza strana nel cuore, e i
capelli disordinati come non li ho più avuti nella vita. Sono giovane, così
giovane, e ora sono in grado di vedermi nitidamente, quasi come se quella
ragazzina fosse un riflesso nello specchio.
Il
sole della California del sud, caldo, dolce, che mi accarezza il profilo come
fosse un genitore attento, e chi meglio di quei raggi mi conosce? Sono
cresciuta lì, anche se sentivo che vi era qualcosa che mi richiamava altrove,
forse dall’altra parte del mondo, o forse dietro l’angolo della mia villa con
piscina, anzi della villa di mia madre.
Mi
guardo, sdraiata sulla spiaggia, con addosso una camicetta bel stirata e una
gonna a pieghe rosa chiaro.
Sento
ancora quella sabbia sulla mia pelle e le onde, quelle onde, distendersi verso
di me e poi scivolare indietro, come spinte senza sosta da una specie di magica
speranza.
E
io rimango immobile, io ora mi ricordo,
avevo solo diciannove anni e un vuoto dentro, come una voragine, si, un buco
immenso che nessuno si era mai preso la briga di riempire, o meglio qualcuno ci
aveva provato, ma nel modo sbagliato; mia madre con troppe banconote e mio
padre con le troppe assenze.
Eppure
ora mi sembra che allora fossi ancora tutta intera, ma irrimediabilmente troppo
malata dentro per non soccombere ad un amore così.
Mi
guardo ancora per un momento, è allettante questo viaggio nella memoria, perché
la malinconia culla anche gli animi più irrequieti, e il mio stanotte è su
quella spiaggia.
Sento
le onde ed è diventata un’ossessione, a volte penso di annegare altre di aver
riempito quella voragine dentro il mio petto con l’acqua dell’oceano, ma so che
chi avrebbe potuto porre fine al mio tormento è stato anche artefice del mio
destino.
E
oggi, mi sento troppo legata al mio passato, a chi sono stata una volta per
poter abbandonare quella ragazza su quella spiaggia e allora voglio restare
ancora un po’ in quel lontano 1987, forse non così distante, ma abbastanza per
sentirne la mancanza.
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